Il mercato del toy, dazi ed equilibri in frantumi

Il mercato del gioco si è trovato impreparato di fronte ai dazi imposti dal governo americano. Alcune aziende sono corse subito ai ripari rivedendo strategie e prezzi, con il crowdfunding che ha subito una forte battuta di arresto. Ma in questo clima di incertezza, è difficile fare piani a lungo termine e ripensare i propri modelli di business nel tentativo di aggirare le criticità. E intanto tutto potrebbe finire a “tarallucci e vino”

La decisione degli Stati Uniti di imporre dazi su un’ampia gamma di merci in ingresso ha innescato un effetto valanga persino più destabilizzante dei dazi stessi – così come lo è stata, a suo modo, la successiva tregua. Nonostante lo scenario sia ancora in evoluzione e l’esito finale resti incerto, le conseguenze si sono già fatte sentire su più livelli. Nel settore del gioco, in particolare, sono stati alterati equilibri produttivi e logistici, costringendo aziende grandi e piccole a interventi rapidi, spesso complessi e onerosi. Ora questa crisi, anche se dovesse rientrare, ha messo in discussione il modello di commercio aperto su cui si basa l’industria internazionale. Ha incrinato assetti considerati stabili, trasformando dipendenze consolidate in veri e propri punti deboli, emersi solo alla luce di uno scenario restrittivo e protezionista come quello imposto dai dazi trumpiani.

Le importazioni dall’Asia sono state tra le più colpite, con impatti trasversali sull’intera filiera del giocattolo e dei giochi da tavolo. I dazi – sospesi per 90 giorni al momento di andare in stampa – hanno raggiunto il 145% su molte categorie di prodotti cinesi destinati al mercato statunitense, a partire dalle spedizioni successive al 9 aprile 2025. Questo nonostante fossero già in vigore dazi precedenti: pari al 10% per le spedizioni di febbraio e al 20% per quelle di marzo. Anche i prodotti provenienti dall’Unione Europea sono stati colpiti, con l’introduzione di una tariffa del 10% e la possibilità di un innalzamento fino al 50%. Le conseguenze sui mercati finanziari non si sono fatte attendere: Mattel e Hasbro hanno subito perdite in Borsa del 14,5% e del 14,2%, rispettivamente, seguite da Funko (-17%) e Spin Master (-8%). L’intera industria del gioco statunitense – storicamente fondata su una produzione esternalizzata, in gran parte concentrata in Cina – si è trovata così esposta a una vulnerabilità fino ad allora sottovalutata. Quella che era una scelta di convenienza economica si è rapidamente trasformata in un fattore di rischio strutturale, aggravato dall’aumento dei costi e dall’incertezza sulle politiche commerciali future.

UN TERREMOTO MONDIALE

Le prime conseguenze prevedibili dell’effetto combinato tra margini in calo e incremento delle tariffe – se i dazi fossero effettivamente applicati – sono il rischio di un aumento generalizzato dei prezzi al dettaglio e un rallentamento nei lanci di nuovi prodotti. In secondo luogo, non è difficile immaginare che una crisi di questa portata bloccherebbe del tutto le possibilità di sperimentazione e innovazione del settore. Il mondo del gioco – comprendente giocattoli, giochi da tavolo, accessori, gadget e derivati – presenta diversi livelli di vulnerabilità. I giochi in scatola risentono in particolare della dipendenza dalla componentistica prodotta in Cina. I dazi, intesi come sovrapprezzo non pagato dal Paese esportatore, gravano sull’importatore statunitense, con un impatto diretto sui distributori che si vedono costretti a ritoccare verso l’alto i prezzi al consumatore. La conseguenza più immediata è quindi un innalzamento dei prezzi finali e una riduzione della competitività: in una filiera a tre passaggi (produzione- distribuzione-retail), il prezzo può crescere anche di 4-5 volte rispetto al costo iniziale, a causa dei margini e dei costi fissi. Con l’introduzione di un dazio, a prescindere dal suo valore, questo effetto si amplifica lungo tutta la catena. Chiaramente non va meglio al settore dei giocattoli. Mattel, ad esempio, in seguito al primo annuncio dei dazi da parte di Trump, ha segnalato un aumento dei prezzi sul mercato statunitense per tutti i suoi prodotti, comprese le linee più popolari come Barbie, Hot Wheels e Uno. Come riportato dal New York Times, nel suo caso il 20% della produzione destinata agli Usa proviene dalla Cina, e l’azienda punta a scendere sotto il 15% entro il 2026, diversificando verso India, Indonesia, Malesia e Thailandia. Alla luce di quella situazione, l’azienda ha alzato a 80 milioni di dollari il target di risparmio per il 2025 nel piano “Optimizing for Profitable Growth”, sospendendo nel frattempo la guidance finanziaria per l’anno, ma confermando il riacquisto azionario da 600 milioni di dollari, per gestire l’incertezza. L’impatto stimato dei dazi, a partire dal terzo trimestre, sarebbe stato per Mattel di circa 270 milioni di dollari. Risuonano ancora emblematiche le parole che Trump ha rilasciato a NBC News poco dopo quel primo annuncio: «Una bambina non ha bisogno di 30 bambole, direi che tre o quattro bambole possono bastare». Anche altri produttori hanno reagito con misure rilevanti: Basic Fun! ha ipotizzato un rincaro del Tonka Classic Steel Mighty Dump Truck da 29,99 a 39,99 dollari; Abacus Brands ha trasferito parte della produzione in Texas, riducendo le funzionalità di alcuni articoli per contenerne il prezzo. Del resto il trasferimento della produzione è stata la soluzione più adottata dalle aziende: chi poteva ha pianificato un trasferimento della produzione negli Stati Uniti, anche se il processo alza inevitabilmente i costi, mentre altri hanno valutato un trasferimento verso Paesi asiatici meno colpiti dai dazi, come Vietnam o India, sebbene ciò richieda investimenti significativi e tempi lunghi. Altri ancora, come Stonemaier Games, hanno affrontato la crisi distribuendo l’impatto lungo tutta la filiera, coinvolgendo editori, distributori, rivenditori e consumatori in un approccio condiviso.

LA FILIERA SOTTO STRESS

Fin dalle prime reazioni è apparso evidente che una delle questioni più critiche riguarda la determinazione del Paese d’origine del prodotto. Secondo la normativa statunitense, un prodotto può essere etichettato come “Made in Usa” solo se ha subito una substantial transformation, ovvero una trasformazione sostanziale che ne modifichi significativamente natura, uso o valore. Questo significa, ad esempio, che semplici operazioni di assemblaggio o imballaggio in territorio americano non sono sufficienti per cambiare il Paese d’origine dichiarato. La verifica doganale, tuttavia, può risultare complessa, soprattutto quando le merci transitano da Paesi terzi o includono componenti provenienti da diverse aree del mondo. Un aspetto che riguarda quasi tutti gli articoli del mondo del gioco: giochi da tavolo, dadi, miniature, carte e accessori, con l’eccezione dei libri, che potrebbero comunque rientrare nei dazi se corredati da elementi ludici (mappe, segnalini, ecc.), comunemente presenti nei manuali di giochi di ruolo. Nel complesso, quindi, indipendentemente dall’effettiva introduzione o meno dei dazi, è evidente che l’intera industria si trova ad affrontare una sfida strutturale. Bisogna essere pronti a manovre le cui ripercussioni non si limitano al mercato statunitense: data la centralità degli Stati Uniti nella catena logistica internazionale, le conseguenze si stanno già propagando a livello globale. Qualunque decisione sarà presa da qui in poi dall’amministrazione americana, l’introduzione dei dazi ha messo a nudo la quasi totale dipendenza della filiera produttiva del gioco dalla manifattura cinese. Una dipendenza tanto più problematica se si considera che ricostruire la produzione sul territorio statunitense comporterebbe costi dalle tre alle quattro volte superiori. Gli impianti produttivi americani, infatti, non sono attualmente in grado di garantire né i volumi, né la qualità richiesta, e nemmeno la sostenibilità economica. La realizzazione di giochi complessi, come quelli da tavolo con miniature o componenti in plastica, richiede anch’essa processi industriali specializzati oggi concentrati quasi esclusivamente in Cina. In questo scenario, anche il crowdfunding – divenuto in un decennio un canale cruciale per il finanziamento di giochi da tavolo – sta accusando il colpo. Nel momento peggiore, diversi progetti su piattaforme come Kickstarter e Gamefound sono stati sospesi o rinviati, soprattutto quelli più esposti alla produzione cinese. Le aziende coinvolte, infatti, non riescono a stimare con precisione l’impatto economico dei dazi su spedizioni e margini, e preferiscono adottare un atteggiamento attendista. In alcuni casi, i dazi sono anche utilizzati come giustificazione per blocchi operativi che celano problemi già esistenti. Il periodo in cui gli effetti della guerra commerciale si sentono maggiormente è quello del rientro a scuola, tradizionalmente tra i momenti di spesa più elevata per le famiglie, in cui i rincari diventano più evidenti. Il settore del giocattolo, infatti, presenta una struttura di prezzo generalmente bassa: oltre due terzi dei prodotti vengono venduti a meno di 25 dollari. Questa caratteristica ha storicamente reso la categoria resiliente in fase di recessione, come alternativa ad altre forme di intrattenimento più costose. Tuttavia, il basso valore unitario e i margini ridotti rendono oggi difficile assorbire gli aumenti legati ai dazi senza un corrispondente rialzo dei prezzi al consumo.

ESISTONO SOLUZIONI?

Diverse strategie sono attualmente al vaglio per contenere i danni e salvaguardare la sostenibilità operativa. Una delle prime opzioni è la modifica del portafoglio prodotti, privilegiando giochi con componentistica più semplice e costi di produzione più contenuti. Un esempio efficace sono i giochi di carte, che subiscono un impatto minore in caso di aumento delle tariffe doganali. Prodotti a basso costo ma ad alta marginalità riescono infatti ad assorbire più facilmente rincari fino al 54% sulle spese di importazione, mantenendo comunque un prezzo di vendita accettabile per il consumatore finale. Un’altra soluzione esplorata è la vendita diretta tramite e-commerce. In questo modello, gli editori possono offrire ai clienti l’opzione di coprire parte del costo del dazio direttamente al momento del checkout, anziché inglobare l’intero sovrapprezzo nel listino. Ciò consente una maggiore flessibilità sui prezzi e una comunicazione più trasparente con l’utente finale. Tuttavia, anche superando queste criticità, il tentativo di rilocalizzare la produzione negli Stati Uniti, così da evitare l’imposizione dei dazi, incontrerebbe ulteriori sfide. La prima è di natura strutturale: non esiste al momento un’industria americana sufficientemente sviluppata e competitiva in questo ambito. La costruzione di nuovi impianti richiederebbe tempo e ingenti risorse. Il secondo ostacolo riguarda le materie prime e i macchinari, che sono spesso anch’essi soggetti a dazi, rendendo controproducente l’investimento. E in assenza di una visione di lungo termine e di una stabilità normativa, costruire nuovi impianti risulta un investimento difficile da giustificare. Per questo molte aziende stanno valutando una ristrutturazione logistica, con spedizioni dirette dalla Cina verso mercati diversi dagli Stati Uniti, evitando il transito sul suolo americano quando non strettamente necessario. A complicare ulteriormente il quadro c’è il fatto che, a differenza di altri settori industriali altamente automatizzati, la produzione di giocattoli rimane a forte intensità di manodopera. Alcune fasi, come la pittura dei volti delle bambole, possono richiedere fino a 25 passaggi manuali distinti. La catena di approvvigionamento è altamente frammentata a livello globale: i capelli delle bambole possono essere prodotti in Giappone, i tessuti per gli abiti in Bangladesh. Questo tipo di struttura produttiva rende estremamente difficile invertire i processi di delocalizzazione. Automatizzare completamente la produzione negli Stati Uniti richiederebbe investimenti massicci e un orizzonte temporale di almeno 5–7 anni. Secondo la Toy Association, replicare l’efficienza attuale dei sistemi produttivi di Paesi come Cina, Vietnam o Messico non è realistico nel berve periodo.

CHI RIMEDIA, CHI CHIUDE, CHI SOSPENDE

Molte aziende si stanno attrezzando per contenere l’impatto dei dazi, mentre altre sono finite in difficoltà da subito, indipendentemente dalle misure. MGA Entertainment, tra i principali produttori privati di giocattoli negli Stati Uniti, possiede molte fabbriche sul territorio statunitense: secondo Retail Dive, impiega oltre 2.200 persone e gestisce uno stabilimento attivo da più di sessant’anni a Hudson, Ohio, che nei picchi stagionali arriva a occupare fino a 700 lavoratori. Tuttavia, circa il 65% della produzione MGA è esternalizzata, principalmente in Cina. Emblematico il caso di Final Frontier Games, editore di Merchants Cove e Coloma, che ha annunciato la chiusura con tre progetti da quasi 1,4 milioni di dollari ancora da consegnare. L’azienda, già provata da costi imprevisti nel post-pandemia, è stata ulteriormente colpita da un mancato pagamento per una localizzazione cinese, innescando un collasso finanziario che ha travolto progetti e backers. Spin Master, pur avendo registrato un incremento dei ricavi nel primo trimestre 2025 e una crescita del 14% su base annua, ha preferito ritirare le previsioni annuali, dichiarando l’impossibilità di stimare con precisione l’impatto dei dazi. L’azienda ha avviato una revisione rapida dell’assetto operativo, con interventi mirati su costi e strategie di approvvigionamento. CMON, nome di punta nel settore dei giochi da tavolo, ha invece annunciato una sospensione temporanea dello sviluppo di nuovi titoli e campagne, per concentrarsi sul completamento di quelli in corso. La società, quotata alla borsa di Hong Kong, ha riportato perdite superiori ai due milioni di dollari nel 2024 e ha subito la sospensione del titolo azionario per ritardi nella presentazione dei bilanci. Anche realtà più solide come Stonemaier Games e Mayday Games stanno adottando strategie difensive. La prima ha stimato un aggravio di circa 5 milioni di dollari su 10 milioni di produzione previsti nel 2024, in seguito a un dazio del 54%. Ha risposto con un mix di aumento dei prezzi, ottimizzazione della logistica, diversificazione dei mercati e azioni legali contro l’amministrazione statunitense. Mayday, invece, ha scelto una gestione rigorosa delle campagne, mantenendo la separazione tra fondi raccolti e spese operative, e garantendo la consegna delle ultime produzioni prima dell’entrata in vigore dei dazi. Questo ha consentito la pianificazione di nuovi lanci, pur prevedendo un aumento dell’MSRP (il prezzo consigliato al pubblico) fino al 50%. Una nota parzialmente positiva arriva da Hasbro, che ha dichiarato di essere meglio posizionata rispetto ai concorrenti per affrontare la crisi. Gran parte della produzione dei suoi giochi da tavolo è situata in Massachusetts, mentre i titoli della linea Wizards of the Coast sono fabbricati in Texas e North Carolina. È piuttosto la divisione giocattoli a essere più esposta ai dazi sulle importazioni. Per contrastare l’aumento dei costi, Hasbro ha annunciato un piano di risparmio da un miliardo di dollari, stimando un impatto tra i 100 e i 300 milioni di dollari sul margine operativo per il 2025. Il Ceo Chris Cocks ha confermato la probabilità di un aumento dei prezzi e ha sottolineato che le misure tariffarie comportano complessità logistiche e rischi occupazionali. Pur potendo contare su scala e flessibilità maggiori, Hasbro ha riconosciuto la portata sistemica dei dazi, evidenziando il rischio concreto di riduzione dei profitti e dei posti di lavoro negli Stati Uniti.

LE INCOGNITE

Ciò che rende difficile pianificare strategie efficaci è l’elevato grado di incertezza, destinato a persistere nel tempo. Non è chiaro, ad esempio, se le autorità doganali statunitensi saranno in grado di verificare con precisione la reale provenienza dei prodotti, soprattutto in presenza di triangolazioni logistiche. I criteri della substantial transformation, che determinano il Paese d’origine, non sono univoci e lasciano spazio a interpretazioni soggettive, alimentando ulteriori dubbi. Se i dazi dovessero essere confermati, lo scenario che si prospetta è fortemente destabilizzante. Gli Stati Uniti rappresentano uno snodo cruciale per la distribuzione globale dei giochi in lingua inglese e una loro contrazione rischierebbe di compromettere l’intero ecosistema, con ricadute su vendite internazionali, volumi produttivi, sopravvivenza delle piccole e medie case editrici e affidabilità del crowdfunding come canale commerciale. Senza contare che, per l’Europa e per i giochi europei, il mercato nordamericano è strategico: una sua perdita non potrebbe essere compensata da nessun altro mercato, né per dimensioni né per capacità d’acquisto. E questo avrebbe effetti anche sul nostro mercato interno, poiché una contrazione dei volumi produttivi globali si tradurrebbe facilmente in un aumento dei costi per i consumatori finali. Secondo alcuni analisti, un’escalation delle tensioni commerciali potrebbe nel medio periodo portare a una parziale deriva autarchica da parte di Stati Uniti e Cina, con una conseguente ridefinizione delle catene di approvvigionamento e degli equilibri commerciali globali. Un processo che, inevitabilmente, comporterebbe aumenti generalizzati dei costi e un contesto internazionale sempre più instabile.

L’articolo è stato pubblicato sul numero giungo/luglio 2025 di Toy Store, chiuso in redazione il 23 maggio 2025.

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